Mi chiamo David.
Sto volando da Hong Kong verso Doha sulla strada di ritorno a casa, a Genova, nei vicoli delle città vecchia.
No, ho sbagliato, della città antica.
Antica anziché vecchia: una differenza sostanziale, fondamentale… ma di questo ne riparliamo più avanti.
Sono di ritorno da un viaggio di lavoro, ho girato un po’ di paesi lontani per – come si dice – portare a casa del lavoro, quel lavoro che è il primo scopo della vita di un azienda ed essenziale per chi, ovviamente, ci lavora dentro.
Mi occupo di robotica e, dopo bel po’ di anni, sono giunto – o meglio, ero giunto – alla conclusione di non capirci niente, di usurpare, in un certo qual modo, il ruolo che ricopro.
Forse perché mi porto dietro, come un peso da cui non so liberarmi, quel senso di non essere mai a posto, di non aver mai fatto abbastanza il mio dovere – colpa di papà, questa, non gliene voglio ma ‘sta roba è opera sua – o forse perché certe cose nei miei studi non le ho fatte (d’altronde, all’epoca, non esistevano o quasi) e quindi ne ho saltato un pezzo… amen, ne ho imparate quanto basta per lavorare dignitosamente.
Ho appena visto uno dei film più toccanti che mi sia mai capitato di vedere, un film che fa finta di parlare di intelligenza artificiale e di robot.
Fa finta, come – non vorrei essere frainteso – faccio finta io di occuparmi di quel genere di “cose tecnologiche” quando faccio la mia parte nel pensarle e nel fabbricarle, quando le vado a raccontare in giro per il mondo, quando le vado a vendere.
Fa finta perché parte da lì, da quelle “tecnologie” per dare una visione -soggettiva, del regista in questo caso, ma come lo sono tutte le visioni, tanto più se si parla di “futuro” – di un possibile futuro a cui noi esseri umani saremmo destinati.
Un futuro di amore, un amore senza confini, un infinito amore.
Come sarà il futuro… bella domanda. Ce ne sono tanti di futuri possibili, ne hanno dipinti tanti figure così autorevoli che mi viene da ridere nel pensare di unirmi al coro e aggiungerci anche la mia con la malcelata presunzione di essere, giusto solo un tantino, originale.
Però una cosa l’ho capita, quella la vedo chiara, in quello mi riabilito dal quel “non capirci niente in quello che faccio”: ci aspettano tempi di grande confusione, avremo informazioni di ogni genere in così tanta quantità che una delle cose che cercheremo di più, che vorremo di più, che saremo disposti a pagare di più sarà un qualcosa – tecnologia, teoria, sistema – che ci aiuti a ridurre la complessità per interpretare, o almeno provarci, la realtà in cui vivremo e permettere di muoverci dentro di essa in una dimensione il più possibile a nostra portata.
Un riduttore di complessità.
Cosa sarà? Un dispositivo personale – ormai siamo abituati a portarci appresso una propaggine tecnologica pressoché irrinunciabile e sarà così sempre di più – un software, una nuova rete oggi neppure immaginabile?
Avremo ognuno un robot – o più robot – qualcuno personale, qualcuno collettivo, avremo un ancora più universale Hal 9000, il supercomputer onniveggente e onnipossente di 2001 Odissea nello spazio, che ci farà da grande “direttore d’orchestra” ?
Ogni risposta è lecita, la propria immaginazione, la propria visione, vale quanto quella di chiunque, della tua, della mia, di quella di un filosofo, di un fisico, di un poeta, di uno scienziato, di un futurologo di quelli che le azzeccano quasi tutte da trent’anni a ‘sta parte.
Saremo circondati, sempre più velocemente, di tecnologia, da tanta, eccezionalmente avanzata ma al contempo “familiare e confortevole”, così profondamente compenetrata e parte essenziale del nostro vivere che la capacità di discernere fra umano e non umano, fra intelligenza biologica ed intelligenza artificiale, sarà sempre più inadeguata, distinguere sarà sempre più difficile, per diventare praticamente impossibile e, in definitiva, forse anche inutile.
La differenza, laddove sarà necessario, ci potrà essere solo grazie alla più vecchia, anzi, antica, delle prerogative umane: l’amore.
Ah, dimenticavo: il personaggio del film si chiama David, il suo nome viene ripetuto e pronunciato diverse volte e questo – proprio all’opposto di una carezza all’ego – mi ha richiamato, quasi scutendomi da un sospeso torpore, ad una cosa iniziata, e poi interrotta, più di due anni fa, dopo aver letto, amato e fatto presentare ad un convegno – guarda che buffo, di robotica – un libro scritto da un compagno, e poi amico, di scuola, diventato nel frattempo scrittore di successo.
Anche questo libro dipinge uno scenario di possibile futuro, di tecniche che ad oggi sono solo immaginabili ma, anch’esso, fa finta: in realtà, parla di un grande, grandissimo, fortissimo amore.
La cosa iniziata ed interrotta è la scrittura di un libro. Il titolo, all’inizio diverso e poi cambiato, su ispirazione del mio amico era “Infinito amore”.
Il personaggio del libro del mio amico si chiama, anche lui, David.
Verso una chiamata si può far finta di niente, alla seconda non si può… allora, mi faccio coraggio e, a scrivere “Infinito amore”, questa volta ci provo per davvero.